Novembre 2022
IMPUNITA’
di Sauro Largiuni
La
menzione
del
titolo
A
futura
memoria
(se
la
memoria
ha
un
futuro)
di
Leonardo
Sciascia
–
pubblicato
lo
stesso
anno
(1989)
della
morte
del
suo
autore
e
della
sorte
del
nostro
tempo
–
serve
a
rammentare
che
per
più
di
quarant’anni
il
mondo
è
stato
spartito
nelle
due
“sfere
d’influenza”
degli
USA
e
dell’URSS.
Una
spartizione
fondata,
come
si
sa,
sul
cosiddetto
“equilibro
del
terrore”
retto
dal
presunto
bilanciamento
degli
arsenali
militari
atomici
dei
due
suddetti
Paesi
e
dei
loro
alleati.
Ebbene,
oggi
più
che
mai
tale
paradossale
controllata
stabilità
dell’ordinamento
mondiale
è
messa
in
discussione,
volendo
giocare
fin
troppo
facilmente
con
le
parole,
da
un
non
meno
assurdo
e
nefasto
“orrore
dell’equilibrio”
che
pare
essere
una
delle
ragioni,
se
mai
le
carneficine
belliche
ne
abbiano
una,
dell’attuale
guerra
russo-ucraina.
Una
“operazione
militare
speciale”
e
una
difesa
da
un’invasione
combattute
nello
stesso
territorio
in
cui
è
avvenuto,
dopo
le
bombe
atomiche
americane
sganciate
in
Giappone
alla
fine
della
Seconda
Guerra
Mondiale,
il
più
grave
incidente
nucleare
causato
dallo
scoppio
del reattore della centrale sovietica di Chernobyl.
Un
accadimento
i
cui
effetti
di
propagazione
tanto
invisibili
quanto
diffusi
sono
indubbiamente
accostabili
all’odierno
contagio
pandemico.
Sopra
tutto,
e
ovviamente
non
solo,
per
avere
suscitato
l’improvvisa
quanto
rimossa
consapevolezza
dell’espansione
via
etere
di
tutto
ciò
che
se
ne
infischiava
di
frontiere
e
di
quelle
che
allora
si
chiamavano
“cortine
di
ferro”
e
che
a
sua
volta
trova
oggi
unico
corrispettivo
nella
sconfinata
rete
internettuale
.
Una
ragnatela
telematica
planetaria
che,
peraltro,
ha
senza
dubbio
profittato
e
preso
slancio
dal
contraccolpo
del
disastro
di
Chernobyl
giacché
il
suo
impatto
e
i
suoi
strascichi
dopo
tre
anni
hanno
abbattuto
in
modo
definitivo,
e
simbolico
con
quello
di
Berlino, ogni muro di confine in verità già frollo da tempo.
Su
quelle
rovine
si
è
poi
proseguito
a
edificare,
anzi
a
perseguire
visto
l’infido
ma
completo
trionfo
ottenuto,
un
sistema
di
sviluppo
socio-
economico
sostanzialmente
fondato
–
e
comandato
dalla
sua
egemonia
politico-finanziaria
–
sul
modello
statunitense
allargato
alle
sterminate
distese,
quali
quelle
mediorientali
e
russo-cinesi,
di
un
mercato
di
lì
a
poco
e
sempre
più
rapidamente
ed
inevitabilmente
globale.
Grazie,
come
si
sa,
sopra
tutto
all’inarrestabile
aumento
delle
innovazioni
tecnologiche
alla
cui
velocità
d’azione
e
illimitata
disponibilità
non
ha
corrisposto,
per
colpe
tangibili
rimaste
impunite
e
dai
più
condivise,
un
vero
progresso
civile
e
un
autentico
processo
di
conoscenza
in
grado
di
opporsi
a
un
mondo
tanto
alterato.
D’altronde
è
difficile
credere
che
un
sistema
il
quale
non
ammette
altro
che
il
consumo
continuo
di
merce,
senza
soluzione
di
continuità
che
quella
dell’usura
dell’individuo
ma
non
certo
della
clientela
rinnovata
e
crescente, possa o voglia autoregolarsi.
Una
proditoria
incapacità
che
ha
però
un
costo
talmente
eccessivo
da
rischiare
di
rendere
insolvibile
il
debito
indotto
o
voluto
contratto
sia
individualmente
nella
sfera
personale
della
vita
interiore
sia
collettivamente
nell’ambito
delle
relazioni
esteriori
con
il
mondo
di
tutti.
Una
situazione
critica
che
fa
emergere
l’indispensabile
esigenza
non
più
di
promuovere
a
parole
la
qualità
della
vita
per
poi
riverire
solo
la
quantità
dei
profitti
mondiali.
Oramai
infatti
non
ci
sono
più
tanti
margini
di
tempo
né
giustificazioni
o
alibi
di
sorta
per
far
sì
che
la
strenua
voglia
di
sopravvivere
possa
permetterci
di
assecondare
o
combattere
il
destino
donato
alla
nascita
e
punito
dal
tempo
presente.
Magari
ben
prima
che
esso
ci
spinga
a
pensare
che
l’unico
nodo
a
giungere
veramente
al
pettine
possa
essere,
come
nello
Sciascia
di
Una
storia
semplice
,
soltanto
quello
per
cui
«a
un
certo
punto
della
vita
non
è la speranza l’ultima a morire ma il morire è l’ultima speranza.».
Naturalmente
nessuno
è
obbligato
a
condividere
una
simile
tragica
conclusione
(e
ciò
malgrado
sia,
come
afferma
Saba,
proprio
il
pensiero
della
morte
a
farci
vivere
o
nonostante
che
essa,
come
dice
Ungaretti,
si
sconta
vivendo),
tutti
però
non
possono
fare
a
meno
di
assistere
e
prendere
parte,
a
vario
titolo
e
differenti
responsabilità,
alle
vicende
e
alle
condizioni
del
mondo
che
abitiamo.
Per
questo,
quando
nelle
prime
settimane
d’isolamento
di
due
anni
fa
abbiamo
visto
ogni
tipo
di
vegetazione
proliferare
e
andare
“a
spasso”
nelle
nostre
città
animali
selvatici
di
ogni
genere,
abbiamo
scoperto
l’ennesimo
atto
di
accusa
e
avuto
l’ulteriore
prova
tangibile
contro
la
nostra
genìa
capace
di
devastare
e
sconvolgere
i
delicati
equilibri
di
ogni
ecosistema.
Con
ciò
attivando
e
rinfocolando
di
continuo
un
sistema
globale
di
“distruzione
di
massa”
in
grado
d’innescare
conseguenze
tanto
prevedibili
quanto
incontenibili
che
sono
da
anni
visibili
a
tutti,
sia
di
chi
le
provoca
sia
di
coloro
che
le
subiscono.
Ma
sopra
tutto
sotto
gli
occhi
di
quelli
che
preferiscono
tenerli
chiusi
per
non
disturbare
il
“sonno
della
ragione”
o
di
quelli
che
–
accecati
dalla
luce
penetrante
e
diffusa
di
tale
sistema
planetario
–
non
solo
non
si
oppongono
ai
suoi
continui
assalti
ma
non
smettono
neppure
d’incoraggiarne
e
favorirne
la
propria
e
altrui
conquista.
In
questo
senso
le
bestie
circolanti
allora
fra
le
vie,
le
piazze
e
i
giardini
cittadini
sono
forse
l’effetto
più
vistoso.
Un
esito
macroscopico
che
sembra
il
risultato
inevitabile
di
un
mondo
presente
in
cui
ogni
animale
e
vegetale
ha
colto
allora
l’occasione,
complice
la
fame
e
la
clausura
umana,
di
occupare
invece
lo
spazio
abitato
da
quelli
che
hanno
sempre
seguitato
a
togliergli
il
proprio
naturale.
Una
condizione
stravolta
e
drammatica
che
risulta
perfino
acuita
da
impari
e
vani
tentativi
degli
uomini
di
riacquistare
la
loro
salute
e
sopra
tutto
di
recuperare
alla
svelta
da
parte
dei
più
il
loro
pur
consunto
benessere
consumistico.
A
qualunque
costo
e
del
tutto
indifferenti
alle
possibili
relazioni
almeno
indirette
(la
più
diretta
è
facilmente
riscontrabile
nella
mondialità
di
ambedue)
fra
il
cosiddetto
“cambiamento
climatico”
terrestre
e
la
pandemia
planetaria
ma
assai
interessati
a
non
spendere
un
minuto
del
tempo
che
è
denaro.
Con
ciò
rischiando
al
contrario
di
perdere
e
di
far
perdere
quello
che
“a
parole”
vorrebbero
raggiungere
insieme
agli
altri
unicamente
per
allargare
la
platea
dei
mercati
e
aumentare il numero degli spettatori-clienti.
Tutto
questo
dà
la
reale
misura
del
nostro
presente
e
del
nostro
futuro
e
quindi
la
responsabilità
di
scelte
consapevoli
e
di
azioni
conseguenti.
Certamente
il
presente
ci
consente
di
arrivare
prima
dove
ci
pare
ma
anche,
con
crescente
probabilità,
laddove
non
vorremmo
offesi
abitare
e
feriti
vivere.
Il
futuro
ci
permette,
almeno
in
via
teorica
visto
che
lo
possiamo
ancora
progettare
e
forse
guadagnare
seppur
lentamente
ma
ben
più
umanamente,
il
mondo
più
adeguato
alla
nostra
natura.
Ossia
alla
vita
vera
dalla
quale
deriva
ogni
autentico
progresso
civile
capace
di
opporsi
davvero
ad
un
sistema
economico
e
politico
mondiale
tanto
colpevolmente
distorto
tanto
ben
sintetizzato,
alla
fine
di
questo
mio
intervento,
dai
versi
seguenti
di
Andrea
Zanzotto:
«In
questo progresso scorsoio / non so se vengo ingoiato / o se ingoio.».