Aprile 2022
ARSENALE
di Sauro Largiuni
Rispondo
all'invito
inviando
un
testo
di
carattere
linguistico-letterario
utile,
mi
auguro,
a
rammentare
che
la
lingua
è
la
sola
autentica
patria
di
ciascun
uomo,
così
come
la
letteratura
che
ne
è
il
miglior
prodotto
è
-
al
pari
di
quello
di
ogni
altra
arte
-
l'unico
linguaggio
veramente
universale
rivolto
a
tutti
gli
uomini
che
la
sanno
leggere
e
che
la
ritengono
necessaria
per
vivere.
Sebbene
i
tragici
avvenimenti
bellici
di
questi
ultimi
tempi
l’abbiano
resa
più
attuale,
e
perfino
esclusiva,
l’accezione
militare
di
arsenale
non
è
ovviamente
l’unica.
Se
poi
a
ciò
premettiamo
anche
al
lemma
in
oggetto
la
parola
latina
di
origine
indoeuropea
ars
questo
significa
che
non
si
può
rinunciare
a
delinearne
l’itinerario
linguistico-letterario
senza
riferirsi
all’
arte
della
forza
poetica
con
la
quale
Dante
Alighieri
fa
dell’
arsenale
veneziano
(«
arzanà
de’
Viniziani
»)
il
perno
della
bolgia
dei
barattieri nella
Divina Commedia
(
Inferno
, Canto XXI, vv 1-21).
In
effetti
l’
Arsenale
di
Venezia
–
già
ai
primi
del
Trecento
quando
presumibilmente
fu
visto
da
Dante
–
era
un
complesso
di
costruzioni
e
di
attività
delle
dimensioni
e
dello
sviluppo
di
una
grande
fabbrica
moderna.
Non
per
nulla
sia
arsenale
sia
darsena
derivano
dal
termine
arabo
‘
dar
as-san
’,
ovvero
luogo
di
costruzione
in
particolare
di
naviglio.
Del
resto
restando
nell’ambito
delle
“repubbliche
marinare”
anche
gli
arsenali
pisani
–
base
dei
cinquecenteschi
medicei
oggi
ospitanti
il
“Museo
delle
navi
antiche”
–
erano
stati
costruiti
nell’area
detta,
da
altro
adattamento
della
suddetta
parola
araba,
Terzanaia
poi
conosciuta
come
Cittadella
o
Fortezza.
Coppiola
di
nomi
evocanti
entrambi
luoghi
di
difesa
ma
anche
di
reclusione
come
le
carceri
genovesi
che
accolsero
e
permisero
al
pisano
Rustichello
di
trascrivere,
spesso
aggiungendovi
del
suo
nel
francese
antico
de
La
descrizione
del
mondo
,
e
al
veneziano
Marco
Polo
di
dettargli
i
resoconti
dei
suoi
viaggi
noti
come
Il
Milione
.
Memorie
letterarie
che
rinviano
secoli
dopo
a
quelle
di
Giacomo
Casanova
in
un
brano
delle
quali
egli
ricorda
fra
i
momenti
più
belli
della
sua
vita
quelli
passati
nella
Biblioteca
Augusta
di
Wolfenbüttel
in
Germania
(«
non
pensavo
né
al
passato
né
al
futuro,
e
il
mio
spirito,
assorbito
dal
lavoro,
non
prendeva
in
alcun
conto
l’esistenza
del
presente.
»)
impiantata
nella
medesima
area
del
seicentesco
arsenale
militare.
E
proprio
tornando
a
quello
veneziano
è
stato
credibilmente
calcolato
che
nel
lungo
periodo
di
sua
massima
espansione
vi
fossero
occupati
oltre
cinquemila
lavoratori,
i
cosiddetti
arsenalotti
che
costituivano
anche
la
guardia
personale
del
Doge
armata
di
brandistocchi
e
di
una
specie
di
bastone
dipinto
di
rosso.
Forse
prodotto
dallo
stesso
arsenico
usato
in
tintoria
per
la
fabbricazione
dei
rossi
di
anilina,
certo
del
medesimo
veleno
assunto
in
dosi
minime
ma
abitudinarie
(
arseniofagia
)
dai
montanari
austriaci
sicuramente
presenti
nelle
file
dell’imperial-regio
esercito
absburgico
che
nei
primi
otto
mesi
del
1798
distrussero
completamente
l’
Arsenale
di
Venezia
riducendo
perfino
il
Bucintoro
a
scheletrica
prigione
di
forzati.
In
ciò
richiamando
a
Trecento
inoltrato
–
e
a
chiusura
del
cerchio
perenne
d’ogni
guerra
anche
quando
è
imperdonabilmente
detta
“operazione
militare
speciale”
–
i
reclusi
rilasciati
dal
carcere
per
fungere
da
rematori
delle
galere della Serenissima.
Una
pena,
insomma,
scontata
con
un’altra
che
rinvia
nuovamente
a
quella
dei
barattieri
infernali
ispirata
a
Dante
dall’
arzanà
de’
Viniziani
.
Una
potente
e
serrata
similitudine
che
fa
leva
tutta
sul
motivo
centrale
della
pece
di
cui
il
poeta
prende
in
considerazione
tanto
il
colore
(«
vidila
mirabilmente
oscura.
»)
quanto
l’infiammabilità
(«
bollia
là
giuso
una
pegola
spessa
»),
ma
sopra
tutto
la
vischiosità
che
la
rende
essenziale,
per
essere
spessa
e
tenace,
alla
sicurezza
delle
flotte
marine
(«
a
rimpalmare
i
legni
lor
non
sani,
[…]
che
‘nviscava
la
ripa
d’ogni
parte.
»).
Un
materiale,
la
pece
nera,
ricavato
dalla
distillazione
della
resina
di
alberi
ad
alto
fusto
la
quale
era
poi
bollita
nella
preparazione
della
vera
e
propria
mescola
catramosa
ad
uso
navale
a
cui
era
aggiunta
una
modesta
quantità
di
grasso
di
bue.
Unico
supplemento
quest’ultimo
che
differenziava
la
produzione
della
pece
dalla
lavorazione
di
quella
sostanza
molle
e
appiccicosa
ottenuta
dalla
cottura
delle
bacche
e
delle
foglie,
anche
quelle
«
nate
per
cadere
»
del
vischio
pascoliano,
che
–
spalmata
su
fuscelli
detti
panie
–
era
usata
un
tempo
nell’uccellagione
a
cui
sfugge
però
il
carducciano
stormo
di
arzagole
levandosi
in
volo
e
agitando
in
aria
le
ali
come
l’
artimone
la
sua vela.
Un
movimento
continuo
e
duraturo
che
se
da
un
lato
ne
richiama
la
struttura
e
le
attività
navali
dall’altro
rammenta
che
un
tempo,
almeno
in
ambito
locale,
l’appellativo
di
arsenale
era
dato
proprio
a
quel
ragazzino
che
mostrava
un’inquieta
e
perfino
eccessiva
vivacità.
Quasi
al
pari
dell’incontenibile
e
capricciosa
vitalità
del
coetaneo
arzigogolo
,
magari
finanche
fiducioso
di
mantenerla
anche
negli
anni
di
un’
arzilla
vecchiaia
in
grado
di
sopportare
la
desolante
arsura
della
bolgia
planetaria
in
cui
è
immerso,
attore
pagante
e
spettatore
gratuito
di
un
presente
infernale,
ogni
cronico
uomo
odierno
artefice
della
propria
sorte come del destino altrui.
(da: «VERBAIO. Divagazioni linguistico-letterarie»)