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| © blogMagazine pensato, realizzato e pubblicato in rete da Giorgio Seveso  dal 2011   |    Codice ISSN 2239-0235 |

riContemporaneo.org | opinioni, polemiche, proposte sull’arte contemporanea

8 Sauro Largiuni  Scrittore, è nato a S. Giovanni Valdarno nel 1953.

Novembre 2022

IMPUNITA’

di Sauro Largiuni La menzione del titolo A futura memoria (se la memoria ha un futuro) di Leonardo Sciascia pubblicato lo stesso anno (1989) della morte del suo autore e della sorte del nostro tempo serve a rammentare che per più di quarant’anni il mondo è stato spartito nelle due “sfere d’influenza” degli USA e dell’URSS. Una spartizione fondata, come si sa, sul cosiddetto “equilibro del terrore” retto dal presunto bilanciamento degli arsenali militari atomici dei due suddetti Paesi e dei loro alleati. Ebbene, oggi più che mai tale paradossale controllata stabilità dell’ordinamento mondiale è messa in discussione, volendo giocare fin troppo facilmente con le parole, da un non meno assurdo e nefasto “orrore dell’equilibrio” che pare essere una delle ragioni, se mai le carneficine belliche ne abbiano una, dell’attuale guerra russo-ucraina. Una “operazione militare speciale” e una difesa da un’invasione combattute nello stesso territorio in cui è avvenuto, dopo le bombe atomiche americane sganciate in Giappone alla fine della Seconda Guerra Mondiale, il più grave incidente nucleare causato dallo scoppio del reattore della centrale sovietica di Chernobyl. Un accadimento i cui effetti di propagazione tanto invisibili quanto diffusi sono indubbiamente accostabili all’odierno contagio pandemico. Sopra tutto, e ovviamente non solo, per avere suscitato l’improvvisa quanto rimossa consapevolezza dell’espansione via etere di tutto ciò che se ne infischiava di frontiere e di quelle che allora si chiamavano “cortine di ferro” e che a sua volta trova oggi unico corrispettivo nella sconfinata rete internettuale . Una ragnatela telematica planetaria che, peraltro, ha senza dubbio profittato e preso slancio dal contraccolpo del disastro di Chernobyl giacché il suo impatto e i suoi strascichi dopo tre anni hanno abbattuto in modo definitivo, e simbolico con quello di Berlino, ogni muro di confine in verità già frollo da tempo. Su quelle rovine si è poi proseguito a edificare, anzi a perseguire visto l’infido ma completo trionfo ottenuto, un sistema di sviluppo socio- economico sostanzialmente fondato e comandato dalla sua egemonia politico-finanziaria sul modello statunitense allargato alle sterminate distese, quali quelle mediorientali e russo-cinesi, di un mercato di a poco e sempre più rapidamente ed inevitabilmente globale. Grazie, come si sa, sopra tutto all’inarrestabile aumento delle innovazioni tecnologiche alla cui velocità d’azione e illimitata disponibilità non ha corrisposto, per colpe tangibili rimaste impunite e dai più condivise, un vero progresso civile e un autentico processo di conoscenza in grado di opporsi a un mondo tanto alterato. D’altronde è difficile credere che un sistema il quale non ammette altro che il consumo continuo di merce, senza soluzione di continuità che quella dell’usura dell’individuo ma non certo della clientela rinnovata e crescente, possa o voglia autoregolarsi. Una proditoria incapacità che ha però un costo talmente eccessivo da rischiare di rendere insolvibile il debito indotto o voluto contratto sia individualmente nella sfera personale della vita interiore sia collettivamente nell’ambito delle relazioni esteriori con il mondo di tutti. Una situazione critica che fa emergere l’indispensabile esigenza non più di promuovere a parole la qualità della vita per poi riverire solo la quantità dei profitti mondiali. Oramai infatti non ci sono più tanti margini di tempo giustificazioni o alibi di sorta per far che la strenua voglia di sopravvivere possa permetterci di assecondare o combattere il destino donato alla nascita e punito dal tempo presente. Magari ben prima che esso ci spinga a pensare che l’unico nodo a giungere veramente al pettine possa essere, come nello Sciascia di Una storia semplice , soltanto quello per cui «a un certo punto della vita non è la speranza l’ultima a morire ma il morire è l’ultima speranza.». Naturalmente nessuno è obbligato a condividere una simile tragica conclusione (e ciò malgrado sia, come afferma Saba, proprio il pensiero della morte a farci vivere o nonostante che essa, come dice Ungaretti, si sconta vivendo), tutti però non possono fare a meno di assistere e prendere parte, a vario titolo e differenti responsabilità, alle vicende e alle condizioni del mondo che abitiamo. Per questo, quando nelle prime settimane d’isolamento di due anni fa abbiamo visto ogni tipo di vegetazione proliferare e andare “a spasso” nelle nostre città animali selvatici di ogni genere, abbiamo scoperto l’ennesimo atto di accusa e avuto l’ulteriore prova tangibile contro la nostra genìa capace di devastare e sconvolgere i delicati equilibri di ogni ecosistema. Con ciò attivando e rinfocolando di continuo un sistema globale di “distruzione di massa” in grado d’innescare conseguenze tanto prevedibili quanto incontenibili che sono da anni visibili a tutti, sia di chi le provoca sia di coloro che le subiscono. Ma sopra tutto sotto gli occhi di quelli che preferiscono tenerli chiusi per non disturbare il “sonno della ragione” o di quelli che accecati dalla luce penetrante e diffusa di tale sistema planetario non solo non si oppongono ai suoi continui assalti ma non smettono neppure d’incoraggiarne e favorirne la propria e altrui conquista. In questo senso le bestie circolanti allora fra le vie, le piazze e i giardini cittadini sono forse l’effetto più vistoso. Un esito macroscopico che sembra il risultato inevitabile di un mondo presente in cui ogni animale e vegetale ha colto allora l’occasione, complice la fame e la clausura umana, di occupare invece lo spazio abitato da quelli che hanno sempre seguitato a togliergli il proprio naturale. Una condizione stravolta e drammatica che risulta perfino acuita da impari e vani tentativi degli uomini di riacquistare la loro salute e sopra tutto di recuperare alla svelta da parte dei più il loro pur consunto benessere consumistico. A qualunque costo e del tutto indifferenti alle possibili relazioni almeno indirette (la più diretta è facilmente riscontrabile nella mondialità di ambedue) fra il cosiddetto “cambiamento climatico” terrestre e la pandemia planetaria ma assai interessati a non spendere un minuto del tempo che è denaro. Con ciò rischiando al contrario di perdere e di far perdere quello che “a parole” vorrebbero raggiungere insieme agli altri unicamente per allargare la platea dei mercati e aumentare il numero degli spettatori-clienti. Tutto questo la reale misura del nostro presente e del nostro futuro e quindi la responsabilità di scelte consapevoli e di azioni conseguenti. Certamente il presente ci consente di arrivare prima dove ci pare ma anche, con crescente probabilità, laddove non vorremmo offesi abitare e feriti vivere. Il futuro ci permette, almeno in via teorica visto che lo possiamo ancora progettare e forse guadagnare seppur lentamente ma ben più umanamente, il mondo più adeguato alla nostra natura. Ossia alla vita vera dalla quale deriva ogni autentico progresso civile capace di opporsi davvero ad un sistema economico e politico mondiale tanto colpevolmente distorto tanto ben sintetizzato, alla fine di questo mio intervento, dai versi seguenti di Andrea Zanzotto: «In questo progresso scorsoio / non so se vengo ingoiato / o se ingoio.».

polemiche e proposte sull’arte contemporanea

8

Novembre 2022

IMPUNITA’

di Sauro Largiuni La menzione del titolo A futura memoria (se la memoria ha un futuro) di Leonardo Sciascia pubblicato lo stesso anno (1989) della morte del suo autore e della sorte del nostro tempo serve a rammentare che per più di quarant’anni il mondo è stato spartito nelle due “sfere d’influenza” degli USA e dell’URSS. Una spartizione fondata, come si sa, sul cosiddetto “equilibro del terrore” retto dal presunto bilanciamento degli arsenali militari atomici dei due suddetti Paesi e dei loro alleati. Ebbene, oggi più che mai tale paradossale controllata stabilità dell’ordinamento mondiale è messa in discussione, volendo giocare fin troppo facilmente con le parole, da un non meno assurdo e nefasto “orrore dell’equilibrio” che pare essere una delle ragioni, se mai le carneficine belliche ne abbiano una, dell’attuale guerra russo-ucraina. Una “operazione militare speciale” e una difesa da un’invasione combattute nello stesso territorio in cui è avvenuto, dopo le bombe atomiche americane sganciate in Giappone alla fine della Seconda Guerra Mondiale, il più grave incidente nucleare causato dallo scoppio del reattore della centrale sovietica di Chernobyl. Un accadimento i cui effetti di propagazione tanto invisibili quanto diffusi sono indubbiamente accostabili all’odierno contagio pandemico. Sopra tutto, e ovviamente non solo, per avere suscitato l’improvvisa quanto rimossa consapevolezza dell’espansione via etere di tutto ciò che se ne infischiava di frontiere e di quelle che allora si chiamavano “cortine di ferro” e che a sua volta trova oggi unico corrispettivo nella sconfinata rete internettuale . Una ragnatela telematica planetaria che, peraltro, ha senza dubbio profittato e preso slancio dal contraccolpo del disastro di Chernobyl giacché il suo impatto e i suoi strascichi dopo tre anni hanno abbattuto in modo definitivo, e simbolico con quello di Berlino, ogni muro di confine in verità già frollo da tempo. Su quelle rovine si è poi proseguito a edificare, anzi a perseguire visto l’infido ma completo trionfo ottenuto, un sistema di sviluppo socio- economico sostanzialmente fondato e comandato dalla sua egemonia politico- finanziaria sul modello statunitense allargato alle sterminate distese, quali quelle mediorientali e russo-cinesi, di un mercato di a poco e sempre più rapidamente ed inevitabilmente globale. Grazie, come si sa, sopra tutto all’inarrestabile aumento delle innovazioni tecnologiche alla cui velocità d’azione e illimitata disponibilità non ha corrisposto, per colpe tangibili rimaste impunite e dai più condivise, un vero progresso civile e un autentico processo di conoscenza in grado di opporsi a un mondo tanto alterato. D’altronde è difficile credere che un sistema il quale non ammette altro che il consumo continuo di merce, senza soluzione di continuità che quella dell’usura dell’individuo ma non certo della clientela rinnovata e crescente, possa o voglia autoregolarsi. Una proditoria incapacità che ha però un costo talmente eccessivo da rischiare di rendere insolvibile il debito indotto o voluto contratto sia individualmente nella sfera personale della vita interiore sia collettivamente nell’ambito delle relazioni esteriori con il mondo di tutti. Una situazione critica che fa emergere l’indispensabile esigenza non più di promuovere a parole la qualità della vita per poi riverire solo la quantità dei profitti mondiali. Oramai infatti non ci sono più tanti margini di tempo giustificazioni o alibi di sorta per far che la strenua voglia di sopravvivere possa permetterci di assecondare o combattere il destino donato alla nascita e punito dal tempo presente. Magari ben prima che esso ci spinga a pensare che l’unico nodo a giungere veramente al pettine possa essere, come nello Sciascia di Una storia semplice , soltanto quello per cui «a un certo punto della vita non è la speranza l’ultima a morire ma il morire è l’ultima speranza.». Naturalmente nessuno è obbligato a condividere una simile tragica conclusione (e ciò malgrado sia, come afferma Saba, proprio il pensiero della morte a farci vivere o nonostante che essa, come dice Ungaretti, si sconta vivendo), tutti però non possono fare a meno di assistere e prendere parte, a vario titolo e differenti responsabilità, alle vicende e alle condizioni del mondo che abitiamo. Per questo, quando nelle prime settimane d’isolamento di due anni fa abbiamo visto ogni tipo di vegetazione proliferare e andare “a spasso” nelle nostre città animali selvatici di ogni genere, abbiamo scoperto l’ennesimo atto di accusa e avuto l’ulteriore prova tangibile contro la nostra genìa capace di devastare e sconvolgere i delicati equilibri di ogni ecosistema. Con ciò attivando e rinfocolando di continuo un sistema globale di “distruzione di massa” in grado d’innescare conseguenze tanto prevedibili quanto incontenibili che sono da anni visibili a tutti, sia di chi le provoca sia di coloro che le subiscono. Ma sopra tutto sotto gli occhi di quelli che preferiscono tenerli chiusi per non disturbare il “sonno della ragione” o di quelli che accecati dalla luce penetrante e diffusa di tale sistema planetario non solo non si oppongono ai suoi continui assalti ma non smettono neppure d’incoraggiarne e favorirne la propria e altrui conquista. In questo senso le bestie circolanti allora fra le vie, le piazze e i giardini cittadini sono forse l’effetto più vistoso. Un esito macroscopico che sembra il risultato inevitabile di un mondo presente in cui ogni animale e vegetale ha colto allora l’occasione, complice la fame e la clausura umana, di occupare invece lo spazio abitato da quelli che hanno sempre seguitato a togliergli il proprio naturale. Una condizione stravolta e drammatica che risulta perfino acuita da impari e vani tentativi degli uomini di riacquistare la loro salute e sopra tutto di recuperare alla svelta da parte dei più il loro pur consunto benessere consumistico. A qualunque costo e del tutto indifferenti alle possibili relazioni almeno indirette (la più diretta è facilmente riscontrabile nella mondialità di ambedue) fra il cosiddetto “cambiamento climatico” terrestre e la pandemia planetaria ma assai interessati a non spendere un minuto del tempo che è denaro. Con ciò rischiando al contrario di perdere e di far perdere quello che “a parole” vorrebbero raggiungere insieme agli altri unicamente per allargare la platea dei mercati e aumentare il numero degli spettatori-clienti. Tutto questo la reale misura del nostro presente e del nostro futuro e quindi la responsabilità di scelte consapevoli e di azioni conseguenti. Certamente il presente ci consente di arrivare prima dove ci pare ma anche, con crescente probabilità, laddove non vorremmo offesi abitare e feriti vivere. Il futuro ci permette, almeno in via teorica visto che lo possiamo ancora progettare e forse guadagnare seppur lentamente ma ben più umanamente, il mondo più adeguato alla nostra natura. Ossia alla vita vera dalla quale deriva ogni autentico progresso civile capace di opporsi davvero ad un sistema economico e politico mondiale tanto colpevolmente distorto tanto ben sintetizzato, alla fine di questo mio intervento, dai versi seguenti di Andrea Zanzotto: «In questo progresso scorsoio / non so se vengo ingoiato / o se ingoio.».
Sauro Largiuni  Scrittore, è nato a S. Giovanni Valdarno nel 1953.