26/11/2020
IL MONUMENTO AI
MINATORI DI VITTORIO
BASAGLIA
di Gioxe De Micheli
Il
Pozzo
Camorra
esplose
la
mattina
del
4
maggio
1954.
In
quella
miniera
di
lignite
–
proprietà
dei
“nababbi
del
sottosuolo",
come
li
definì
Carlo
Cassola
–
morirono
43
minatori.
Quanti
modi
per
piangere
a
Ribolla,
scriverà
Luciano
Bianciardi
raccontando
il
dolore
della
“sposa
meridionale”
accanto
al
dolore
della
“vecchia
maremmana”.
La
mattina
del
7
maggio,
cinquantamila
persone
presero
parte
ai
funerali.
Dal
palco,
Giuseppe
Di
Vittorio
parlò
di
chi
“accumula
la
propria
ricchezza
sullo
sfruttamento
delle
altrui
fatiche”
e
concluse
poi
il
suo
discorso
con
un
giuramento:
“Giuriamo
che
il
vostro
sacrificio
non
sarà
dimenticato,
che
sarete
elevati
a
simbolo
di
riscossa,
di
redenzione
sociale
e
umana
di
tutti
i
lavoratori”.
Bellissime,
forti
parole
del
grande
sindacalista;
certo
se
le
ascoltassero
oggi
i
raccoglitori
di
pomodori
di
Villa
Literno,
o
il
popolo
dei
Rider,
o
tutte
le
categorie
dei
nuovi
sfruttati,
dovrebbero
constatare
che
quel
giuramento
non
è
stato
onorato, almeno non come sognava Di Vittorio.
Nondimeno,
a
partire
da
quel
7
maggio
del
1954,
sono
stati
in
molti
a
non
voler
dimenticare
quella
promessa.
Primo
fra
tutti
un
gruppo
di
cittadini
che
nel
1979,
proprio
nei
luoghi
e
nei
paesi
che
avevano
vissuto
quel
dramma,
si
strinse
attorno
all’impegno
del
dirigente
politico
ed
ex
minatore
montemassino
Mendes
Masotti
e
al
fervore
creativo
dell’artista
veneziano
Vittorio
Basaglia,
dando
vita
al
Comitato
promotore
per
il
monumento
al
minatore
italiano.
Una
comunità
e
un
artista
dotato
di
una
straordinaria
capacità:
far
partecipi
altri,
artisti
e
non,
alle
sue
invenzioni,
al
suo
immaginario,
alla
sua
ansia
creativa.
Un
talento
davvero
particolare,
questo,
di
Vittorio
Basaglia;
come
quando,
a
Montemassi,
coinvolse
me
e
Marco
Seveso,
circondati
da
numerosi
amici
che
ci
sostenevano
con
entusiasmo,
alla
realizzazione
di
un
grande
pannello
per
una
Festa
dell’Unità.
E
fu
davvero
una
festa,
con
Vittorio
che
ci
caricò
tutti
sul
cavallo
di
Guidoriccio
e
ci
portò
in
volo
sopra
i
campi,
gli
uliveti,
la
macchia,
i
magici
ruderi
di
Sassoforte.
Uno
spettatore
che
non
ci
voleva
bene,
guardando
il
famoso
condottiero
che
stavamo
dipingendo,
esclamò:
“Ecco,
questi
fanno
diventare
comunisti
anche
i
medievali!”
e
di
rimando
un
vecchio
compagno
gli
rispose:
“Meglio
di
voi
che
vorreste
far
diventare medievali i moderni!”.
È
in
questo
clima
e
nello
slancio
ideale
di
una
Comunità
e
del
“suo”
artista
che,
a
mio
avviso,
è
nato
il
progetto
per
il
monumento
dedicato
ai
minatori.
Molto
importante
fu
la
frequentazione
e
l’amicizia
con
Mendes
Masotti
e
con
l’entità
stessa
del
paese
di
Montemassi,
la
sua
storia,
Simone
Martini,
i
suoi
abitanti,
le
sue
case;
in
una
di
queste,
bellissima,
ai
piedi
del
castello,
Vittorio
ha
vissuto
per
tanti
anni
con
la
moglie
Vittoria
e
la
figlia
Federica.
Qui,
nel
centro
dell’antico
borgo,
realizzò
una
grande
statua
in
lamiera
saldata
dedicata
alla
Pace,
aprì
una
stamperia
d’arte
–
ricordo
un’appassionata
serigrafia
di
Marco
Seveso,
realizzata
sull’onda
emozionale
dell’eccidio
di
Sabra
e
Chatila
–
organizzò
incontri e dibattiti, affrescò l’osteria di Leo e Fosco.
Certo
Basaglia
non
era
un
artista
“neutrale”.
Ecco
cosa
diceva
mio
padre,
Mario
De
Micheli,
recensendo
una
sua
mostra
del
1967
alla
Galleria
delle
ore
di
Milano:
“Le
immagini
di
Basaglia
sono
l’espressione
di
un’adesione
senza
riserve
alla
condizione
dell’uomo,
ai
suoi
fervori,
alle
sue
contraddizioni,
alle
sue
ossessioni.
È
in
questo
senso
che,
appunto,
ogni
sua
immagine
diventa
decifrabile,
trova
il
suo
specifico
riferimento,
anche
se
poi
la
fantasia
figurativa
vi
ha
frugato
dentro
sino
a
sconvolgerla
e
ad
esaltarla
nel
colore
e
nella
torsione
delle
forme.
Una
pittura
lirica
e
ansiosa
vorrei
chiamare
questa
pittura.
È
questo
il
modo,
infatti,
con
cui
egli
ci
parla
della
realtà:
un
modo
non
pacificato,
ma
vivo, aperto, preoccupato, carico di ardore”.
Dunque
Vittorio,
a
partire
dal
1980,
comincia
a
lavorare
al
progetto
del
monumento
,
è
di
quell’anno
un
suo
disegno,
forse
eseguito
dal
vero,
di
due
minatori
al
lavoro;
e
da
quell’anno
comincia
a
documentarsi
scrupolosamente,
come
mi
racconta
Stefano
Perocco
che
è
stato
un
suo
fondamentale
collaboratore
nella
realizzazione
del
monumento.
Visita
il
Museo
della
miniera
di
Massa
Marittima,
le
strutture
dismesse
dei
pozzi
di
Ribolla,
la
miniera
di
Gavorrano;
ma
soprattutto
ascolta,
raccoglie
e
introietta
i
racconti
e
le
testimonianze
dei
minatori.
Teniamo
conto
che
allora
molte
miniere
erano
ancora
in
funzione,
Gavorrano,
appunto,
ma
anche
Niccioleta,
Boccheggiano,
e
che
l’economia
locale
era
ancora
legata
in
buona
parte
alle
miniere.
Ricordo
bene,
in
quegli
anni,
il
pullman
che
a
Sassofortino
“scaricava”
i
minatori
di
ritorno
dai
turni
di
lavoro,
le
cosiddette
”gite”,
con
le
loro
panierine
di
cartone
marrone.
Mi
ricordo
il
mio
amico
Benito,
minatore,
figlio
di
minatore
scampato
al
Camorra
e
i
suoi
racconti
sull’uso
del
martello
pneumatico
all’avanzamento,
e
di
Aronne,
il
babbo
del
mio
amico
Mario,
licenziato
dalla
miniera
perché
socialista,
del
mio
amico
Fabrizio
quando
raccontava
del
padre
licenziato
dalla
Montecatini
perché
sindacalista,
mi
ricordo
di
quando
il
mio
amico
Tauro,
infermiere
a
Niccioleta,
un
giorno,
con
la
miniera
chiusa,
mi
portò
davanti
all’imbocco
del
pozzo.
Un
buco
nero
da
cui
spirava
un
rabbrividente fiato gelido.
Da
subito
il
lavoro
di
Vittorio
si
focalizza
su
cinque
temi,
che
a
mio
avviso
vanno
a
inscriversi
in
due
tempi
diversi,
prima
e
dopo
il
Pozzo
Camorra.
Nel
primo,
un
gruppo
di
sculture
che
intitolerei:
Il
minatore-contadino
;
Il
minatore,
il
cinghiale,
la
Maremma
;
ll
minatore,
la
miniera
.
Nel
secondo:
Il
minatore,
il
soccorso
;
I
minatori
e il compagno ferito
.
Non
è
confermato
con
sicurezza,
ma
si
può
presumere
che
Basaglia
abbia
cominciato
a
modellare
nella
primavera
del
1982,
e
per
farlo
sceglie
di
lavorare
accanto
alla
fonderia
che
si
occuperà
delle
fusioni
in
bronzo.
Si
tratta
della
Fonderia
Venturi
che
si
trova
a
Cedriano,
un
paesino
in
provincia
di
Bologna,
specializzata
nella
realizzazione
di
opere
d’arte
e
dove
hanno
già
lavorato
importanti
artisti
come
Valeriano
Trubbiani
e
Nello
Finotti,
e
che,
inoltre,
sta
sperimentando
tecniche
di
fusione
all’avanguardia.
Dunque
la
direzione
della
Venturi
mette
a
disposizione
uno
spazio
dove
Basaglia
allestisce
lo
studio.
Qui
lavora
a
lungo
e
a
più
riprese.
Stefano
Perocco
gli
è
accanto
e
lo
aiuta
occupandosi,
in
primo
luogo,
della
realizzazione
delle
armature
di
legno
e
fil
di
ferro,
strutture
sulle
quali
Vittorio
inizia
a
modellare
in
creta le varie “stazioni”.
Otto sono i minatori ammazzati a Gessolungo
Ora piangono i signori e gli portano dei fiori
Mi
piace
pensare
che
le
parole
di
questa
canzone
scritta
dal
nostro
comune
amico
Michele
Straniero
siano
potute
tornare
alla
mente
di
Vittorio mentre lavorava.
Modellare
in
creta
otto
figure
a
grandezza
naturale,
credetemi,
non
è
cosa
da
poco,
richiede
uno
straordinario
impegno
creativo,
naturalmente,
ma
anche
fisico.
Insomma,
è
un
lavoro
durissimo
e
averlo
fatto
con
la
superba
qualità
del
risultato
ottenuto
non
può
che
destare
grande
ammirazione.
Stefano
lo
aiuta
e
lo
incoraggia.
All’inizio
del
1983
le
sculture
in
creta
sono
finite,
ma
si
può
dire
che
Vittorio
è
solo
a
metà
dell’opera.
Sì,
perché
a
questo
punto
bisogna
trasformare
le
sculture
in
creta
in
sculture
in
cera,
dando
così
il
via
a
quel
processo
che
porterà
a
gettarle
in
bronzo.
Un
procedimento
antico
e
bellissimo
che
viene
chiamato
“cera
persa”.
Per
fare
questo
si
procede
alla
preparazione
dei
calchi
in
gesso,
che
vengono
realizzati
da
specialisti
della
fonderia
stessa.
È
un’operazione
delicata,
complessa
e
non
priva
di
qualche
rischio,
un
errore
può
danneggiare,
anche
seriamente,
il
lavoro
fatto.
Una
volta
realizzati
i
calchi
in
gesso,
si
cola
al
loro
interno
la
cera.
Ecco,
la
trasformazione
è avvenuta.
Per
Vittorio
è
arrivato
il
momento
di
rimettersi
nuovamente
al
lavoro.
Questa
è
una
fase
dove
si
può
tranquillamente
intervenire
su
eventuali
“pentimenti”,
si
possono
affinare
particolari,
eliminare
imperfezioni,
ritoccare.
La
cera
permette
agevolmente
tutto
questo,
ed
è,
per
certi
aspetti,
un
lavoro
meno
duro
del
modellare
la
creta,
ma
lo
scultore
ha,
adesso,
la
consapevolezza
che,
avvicinandosi
al
risultato
finale,
“indietro
non
si
torna”.
Così,
le
sculture
passano
nuovamente
in
mano
alla
fonderia,
e
a
questo
punto,
come
descritto
nel
sito
della
Venturi,
che
è
ancora
vivacemente
operante:
“Sulla
forma
in
cera
viene
effettuato
un
rivestimento
ceramico
finissimo
[…].
La
cera
rivestita
viene
messa
in
un
forno
ad
alta
temperatura
in
cui
il
refrattario
si
cuoce
in
breve
tempo
e
la
cera
volatilizza
completamente
(cera
persa).
Si
ottiene
così
un
negativo
in
materiale
refrattario,
e
nella cavità lasciata libera dalla cera viene colato il bronzo fuso”.
È
il
momento
cruciale,
decisivo,
penso
alla
tensione,
all’emozione
di
Vittorio!
Quattro
secoli
prima
Benvenuto
Cellini
aveva
raccontato
nella
sua autobiografia l’emozione di un simile momento:
…di
modo
che,
veduto
ognuno
che
’I
mio
bronzo
s’era
benissimo
fatto
liquido
e
che
la
mia
forma
si
empieva,
tutti
animosamente
e
lieti
mi
aiutavano
e
ubbidivano;
e
io
or
qua
e
or
là
comandavo,
aiutavo
e
dicevo:
“Oh
Dio,
che
con
le
tue
immense
virtù
risuscitasti
da
e’
morti,
e
glorioso
te
ne
salisti
al
cielo!”,
di
modo
che
in
un
tratto
e
s’empiè
la
mia
forma:
per
la
qual
cosa
io
m’inginochiai
e
con
tutto
’I
cuore
ne
ringraziai Iddio…
Ora
io
non
so
se
Vittorio
abbia
ringraziato
l’Altissimo
,
sicuramente
avrà
ringraziato
Stefano,
gli
uomini
della
fonderia
e
soprattutto
Mendes
Masotti
e
i
compagni
del
Comitato
promotore
per
il
monumento al minatore italiano.
È
fatta,
quando
il
bronzo
si
raffredda
e
solidifica
si
spacca
il
refrattario
e
la
scultura,
di
colpo,
“sboccia”.
Poi,
dopo
la
rimozione
delle
cosiddette
colate
di
fusione,
che
sono
praticamente
come
dei
canaletti
da
dove
è
passato
il
bronzo
fuso,
un
artigiano
specializzato
si
occupa
della patinatura del metallo. Le sculture sono finite.
Le
sculture
sono
finite
e
sono
lì,
pronte
per
essere
imbragate
e
caricate
sui
camion
che
le
porteranno
alla
loro
destinazione
finale.
Ma
prima
di
partire
concediamoci
di
guardarle
ancora
ricoverate
nel
magazzino.
Una
selva
di
teste,
gambe,
braccia,
mani:
l’impatto
è
forte!
A
guardarle
così,
tutte
assieme,
si
percepisce
il
gigantesco
lavoro
fatto,
l’amore
contenuto
in
quel
lavoro,
si
intuiscono
i
padri
nobili
di
quel
lavoro.
Il
cubismo,
l’espressionismo,
i
realisti
italiani
del
primo
dopoguerra
ma
anche
una
certa
scabra
scultura
prerinascimentale,
tutte
cose
che
si
sentono
far
parte
della
cultura
figurativa
di
Basaglia,
ma
tutto
questo
è
preso,
filtrato
e
manipolato
dalla
sua
personalità,
dalle
sue
invenzioni,
dalla
sua
ricerca
libera
e
autonoma.
Marino
Marini
sarebbe
stato
orgoglioso
di
questo
suo
allievo!
Alla
fine,
quest’opera
travalica
persino
i
motivi
stessi
delle
sue
ragioni.
Mio
padre
Mario
ci
avrebbe
parlato
della
differenza
fra
Tema
e
Soggetto.
Il
soggetto:
I
minatori
di
Ribolla;
il
Tema:
l’Uomo,
la
vita
e
la
morte.
Bene,
saliamo
sul
camion
e
partiamo.
È
la
primavera
del
1984
e
a
Ribolla
sono
già
pronte
le
opere
murarie,
ovvero
il
palcoscenico
dove
le
sculture
troveranno
la
loro
definitiva
collocazione.
Il
progetto
è
stato
realizzato
in
collaborazione
con
un’architetta
francese,
madre
di
un
allievo di Vittorio all’Accademia di Belle Arti di Venezia.
La
messa
a
dimora
delle
opere
è
quasi
una
festa,
ci
sono
gli
amici
che
collaborano,
la
gente
di
Ribolla
che
guarda,
commenta,
ci
sono
i
bambini
che
giocano,
gente
con
secchi
da
muratore
e
cazzuole.
Vittorio sorride, è felice. Ha ragione a esserlo.
La
domenica
del
6
maggio
del
1984,
il
monumento
viene
inaugurato
ufficialmente.
C’è
il
gonfalone
della
Provincia
di
Grosseto,
quello
del
Comune
di
Roccastrada,
ci
sono
le
autorità.
L’oratore
ufficiale
è
Rinaldo
Scheda,
della
segreteria
nazionale
della
CGIL.
A
seguire
si
presenta
il
libro
di
Maria
Palazzesi:
Ribolla:
Storia
di
un
villaggio
minerario
,
e
si
proietta
il
documentario
di
Piero
Mechini:
L’etrusco
scava ancora
.
Trentasei
anni
dopo
quella
inaugurazione,
sono
tornato
a
visitare
il
monumento.
Monumento
che
conosco
da
sempre
e
nei
minimi
particolari,
ma
come
a
volte
succede
alle
cose
che
senti
tue,
quasi
non
ci
fai
più
caso,
sono
lì,
ti
aspettano
e
tu
sai
di
poter
contare
su
di
loro.
Questa
estate,
però,
richiamato
anche
dal
restauro
delle
parti
in
muratura
propiziato
dall’Auser
di
Ribolla
e
dall’amministrazione
comunale,
ho
voluto
ripercorrere
quelle
cinque
“stazioni”
indagandone
a
fondo
il
pathos,
il
significato,
la
qualità.
L’ho
fatto
perché
in
cuor
mio
ho
sentito
la
necessità
di
riprendere
un
discorso
interrotto
e
per
onorare
un’opera
ancora
troppo
poco
conosciuta.
Ecco
anche
la
ragione di queste mie parole, di queste mie considerazioni.
Il minatore-contadino
È
una
figura
isolata
quasi
avvitata
su
se
stessa
in
un’espressiva
deformazione
plastica
dove
il
torso
ruota
sul
bacino
come
per
dare
forza
al
colpo
di
piccone.
Qui
ho
la
sensazione
che
Vittorio
abbia
pensato
a
una
metamorfosi
dove
il
piccone
del
minatore
diventa
o
è
ancora
la
zappa
nelle
mani
del
contadino,
mani
che,
da
espressivamente
realiste,
mutano
subito
verso
l’alto
cercando
un’altra
forma,
un’altra
dimensione
come
a
inseguire
lo
slancio
di
una
“colonna infinita”.
Il minatore, il cinghiale, la Maremma
Chi
conosce
bene
queste
terre
sa
come
il
“sentimento”
della
caccia
sia
straordinariamente
scolpito
nel
DNA
dei
suoi
abitanti,
e,
certo,
Vittorio
non
avrebbe
potuto
ignorarlo.
Il
minatore,
il
suo
fucile,
il
cinghiale,
anzi
il
“cignale”
inseguito
dalla
bracca.
In
questa
“stazione”
il
cacciatore,
in
attesa
alla
sua
“posta”
è
avvolto
in
una
sorta
di
tabarro,
il
volto
è
appena
poggiato
sulla
lunga
canna
del
fucile
che
serra
tra
le
mani.
La
testa
e
le
mani
sono
modellate
con
morbidezza,
direi
con
affettuosa
commozione,
rispetto
alla
spigolosità
cubista
e
secca
del
panneggio,
questo
quasi
a
voler
giustificare
il
lirismo
plastico
delle
mani
e
del
volto.
Una
contraddizione
di
una
coerenza
meravigliosa.
E
d’altra
parte,
come
diceva
Paolo
Veronese:
“
Noi
altri
pittori
ci prendiamo licenze che
si prendono
i poeti
e
i matti”
.
Il
cinghiale
e
la
bracca.
Qui,
naturalmente
per
motivo
di
sintesi,
Vittorio
riduce
la
canizza
a
un
solo
cane:
Tobia,
il
piccolo
levriero
di
casa
(Tobia
che
era
già
stato
immortalato
nel
“nostro”
grande
pannello
per
la
Festa
dell’Unità).
Bellissimo
il
segugio
che
assalta
la
groppa
del
cinghiale.
Più
che
un
combattimento,
l’“idea”
di
un
combattimento
in
un
curioso
realismo
metafisico,
dove
si
avverte
il
piacere
del
modellare,
e
dei
colpi
di
sgorbia
e
di
spatola,
un
trionfo
di
maestria
e
potenza
espressiva.
È
così
che,
alla
fine,
tutto
il
gruppo
diventa
una
vera
dichiarazione
d’amore
alla
Maremma,
alle
sue
macchie
vernine,
al sughero, al mirto, alla sua gente.
Il minatore, la miniera
Il
minatore
spinge
il
carrello
verso
la
bocca
del
pozzo.
Il
carrello
è
un
vero
carrello
di
miniera
che
Vittorio
e
Stefano
hanno
recuperato
a
Gavorrano.
L’immagine
è
di
grande
impatto
anche
scenografico,
con
il
lungo
tratto
di
rotaie
che
scendono
nel
cunicolo
e
con
il
rosso
rugginoso
del
carrello
a
contrasto
con
il
bruno
scuro
del
bronzo.
L’uomo
non
indossa
ancora
il
casco
e
il
volto
è
quello
di
un
giovane
dalle
guance
scavate.
Anche
qui,
come
nel
minatore-cacciatore,
la
testa
è
modellata
con
affettuosa
armonia,
i
tratti
sono
distesi,
quasi
sereni
e
solo
gli
occhi
sono
velati
come
di
malinconia.
Il
minatore
scende
nel
pozzo,
va
verso
il
suo
destino,
mentre
il
vento
rovente
che
risale dai cunicoli agita e scompiglia la sua camicia.
Il minatore, il soccorso
Il
Camorra
esplose
alle
8
e
30
e
sin
da
subito
i
minatori
saliti
dagli
altri
pozzi
organizzarono
i
primi
soccorsi
disobbedendo
alle
direttive
della
Montecatini
che
aspettò
sino
alle
dieci
per
dare
il
permesso
di
sospendere
il
lavoro.
Una
squadra
di
volontari
che
eroicamente
sperava
di
poter
raggiungere
il
Camorra
si
calò
nel
pozzo
Raffo:
“Con
non
poca
incoscienza,”
scriverà
Bianciardi.
Non
avevano
autorespiratori
o
altre
protezioni,
quelle
arrivarono
solo
nel
pomeriggio
con
i
soccorsi
organizzati
dalla
Montecatini.
Ecco,
in
questa
“stazione”,
Basaglia
ha
raccontato
quell’“incoscienza”.
La
sublime
incoscienza
dello
slancio
generoso,
non
per
sprezzo
del
pericolo,
al
contrario,
per
sola
umana
solidarietà
verso
i
compagni.
È
straordinario
come
l’artista,
senza
ombra
di
retorica,
abbia
sintetizzato
tutto
questo.
Il
soccorritore,
in
ginocchio
e
più
in
alto,
afferra
il
polso
del
compagno
accasciato
a
terra,
la
testa,
chiusa
ancora
nel
casco,
è
reclinata
sulla
spalla.
È
un
uomo
provato,
sfinito
dal
calore
insopportabile
e
dall’aria
irrespirabile,
che
sembra
aver
rinunciato
a
lottare.
Ma
il
suo
compagno
non
lo
lascia
e
la
stretta
della
sua
mano
è
forte,
non
lo
lascia,
lo
porta
su,
non
lo
lascia.
Ecco,
la
scultura
contiene
il
dramma
ma
Basaglia
ce
lo
racconta
dilavato
dal
sangue
e
dall’orrore,
e
lo
consegna
alla
nostra
coscienza
attraverso
il
linguaggio
universale
dei
sentimenti e della trasfigurazione poetica.
I minatori e il compagno ferito
La
quinta
“stazione”
è
una
vera
e
propria
deposizione
laica.
I
soccorritori
portano
fuori
dal
pozzo
il
minatore.
È
ferito,
ma
con
le
braccia
cinge
i
compagni
come
in
un
commovente
abbraccio
di
vita.
C’è
in
questa
scultura
una
partecipazione
dell’autore
così
intensa,
un
pathos
così
sincero
e
convincente
da
avvicinarla
a
buon
diritto
alle
Pietà
dei
più
grandi
autori.
Il
gruppo
è
scolpito
nell’eternità
del
bronzo
in
una
composizione
che
si
potrebbe
definire
classica
se
non
fosse,
a
mio
parere,
contaminata
da
un’eco
della
Deposizione
di
Caravaggio.
Ecco
dunque
che
ancora
si
fa
sentire
la
vocazione
realista
di
Basaglia,
ma
in
contrappunto,
particolarmente
in
questa
scultura,
l’artista
non
fa
mistero
dei
suoi
diversi
amori,
dei
“giganti”
che
ha
scalato:
da
Boccioni,
a
Picasso,
a
Moore.
Prende
quel
che
gli
serve
senza
timori
o
soggezioni
e
lo
fa
diventare
poetica
sua
in
nome
dell’arte
e
della
libertà
creativa.
Ecco
allora
che
nei
volti
dei
soccorritori
non
ci
sono
più
bocche,
occhi,
nasi
–
sono
stati
portati
via
dalle
polveri,
dai
gas,
dal
calore
infernale.
Allora
quei
volti
si
“pietrificano”,
diventano
maschere
metafisiche
di
sofferenza
e
di
pen
a.
Il
monumento
al
minatore
è
stato
una
grande
sfida
vinta
e,
a
ben
vedere,
per
ottenere
questo
successo,
Basaglia,
con
il
suo
sguardo
limpido
sul
mondo,
ha
avuto
bisogno
solo
della
punta
acuta
della
sua
matita
e
poi
della
sensibilità
dei
suoi
polpastrelli
nel
gesto
semplice
e
antico
del
manipolare
e
modellare
la
creta.
Lo
ha
fatto
con
un
rigore
intellettuale
esemplare,
senza
trucchi
o
infingimenti,
vincendo
la
sua
battaglia
semplicemente
“cercando
la
vita”
e,
come
avrebbe
detto
il
grande Edoardo, “trovando la forma”.
E
allora
mi
chiedo,
pur
sapendo
di
vivere
in
una
stagione
di
grandi
rimozioni,
politiche,
storiche,
culturali,
perché
un’opera
così
importante
non
venga
adeguatamente
valorizzata,
perché
non
sia
inserita
nelle
guide
turistiche
della
Toscana,
perché
non
vi
si
portino
i
bambini
in
gita
scolastica,
perché
non
si
organizzi
un
convegno,
perché
non
si
stampino
e
si
spediscano
cartoline:
Io
sono
qui!
Saluti
da Ribolla!
Sì,
perché
Ribolla
custodisce
nel
suo
cuore
un
prezioso
tesoro:
un’opera
d’arte
di
respiro
universale,
e
quando
un
respiro
universale
è
raccolto
in
un
piccolo
spazio,
chiuso
tra
un
pugno
di
case
di
un
ex
villaggio
minerario,
allora
questo
respiro
acquista
un
valore
ancora
più
profondo,
definitivo,
perché
intessuto
di
umanissimi
sentimenti,
di
verità,
di
storia.
Un
respiro
che
scaturendo
da
una
dimensione
circoscritta
e
quasi
domestica
diventa
“canto
generale”.
Ecco,
io
penso
di
non
sbagliarmi
dicendo
che
in
Italia
è
difficile
trovare
un’opera
pubblica
di
questo
respiro,
di
questa
intensità
ed
esattezza
poetica;
forse,
con
tutte
le
differenze
del
fatto
e
del
contesto,
solo
il
grande
cancello
alle
Fosse
Ardeatine
di
Mirko
Basaldella,
contiene
in
sé una tale forza emozionale.
Con
questa
pagina
esulo
dal
tema,
per
il
buon
motivo
che
ne
vale
la
pena.
Difatti,
il
testo
che
l’amico
Gioxe
De
Micheli
mi
ha
fatto
avere
ora,
appassionato,
documentato,
preciso
e
suggestivamente
descrittivo,
testimonia
se
ancora
ve
ne
fosse
bisogno
di
quanto
e
come
il
nostro
Paese
sia
costellato
per
ogni
dove
di
opere
d’arte
e
monumenti
contemporanei
pochissimo
o
per
nulla
conosciuti.
E
quali
opere!
-
mi
viene
da
dire
-
di
fronte
al
gruppo
statuario
di
grande
valore
civile,
poetico
e
formale
inaugurato
da
Vittorio
Basaglia
nel
1984
a
Ribolla,
in
piena Maremma grossetana… Giudicate voi. (G.S.)
Vittorio Basaglia
Nato
a
Venezia
nel
1936,
è
mancato
a
Pinzano
al
Tagliamento
nel
2005.
Pittore,
scultore
e
docente,
prima
all'Accademia
di
belle
arti
di
Urbino
e
poi
di
Venezia,
cugino
dello
psichiatra
Franco
Basaglia,
fu
promotore
a
Trieste
di
un
laboratorio
artistico
collettivo
e
creatore
nel
1973
della
famosa
statua
mobile
"Marco
Cavallo"
come
simbolo
della
fine
dell'isolamento
dei
malati
mentali.